giovedì 16 ottobre 2025

Contro il duopolio CGIL CONFINDUSTRIA: sintesi sociale e Stato organico

Critica 

Da oltre settant’anni, la vita economica e politica italiana è ostaggio di un duopolio che si traveste da pluralismo: CGIL e Confindustria e degli altri grandi sindacati e grandi associazioni di categoria. 
Due colonne di un sistema che si proclama rappresentativo ma che, in realtà, difende sé stesso. Due poteri speculari che vivono l’uno dell’altro, come avversari teatrali che recitano la parte del conflitto per mantenere lo stesso copione: quello di una società immobile, ingessata tra burocrazia, assistenzialismo e rendite di posizione.

Il duopolio che é diventato sistema dagli anni '50 Novecento 

CGIL e Confindustria sono nate in un secolo industriale, in un’economia di fabbriche e catene di montaggio, in un’Italia in cui capitale e lavoro erano due blocchi contrapposti. Ma oggi quel mondo non esiste più.
Il conflitto "fordista" è un fossile. Il lavoratore è diventato freelance, precario, professionista digitale. L’impresa non è più la fabbrica, ma una rete, una start-up, una piattaforma. Eppure i nostri corpi intermedi restano inchiodati al secolo scorso, difendendo rendite sindacali e padronali, e una cultura economica che non sa generare valore ma solo rivendicare o distribuire quello che c’è.
CGIL e Confindustria, nel loro reciproco immobilismo, sono due facce della stessa conservazione: l’una incapace di rappresentare il nuovo lavoro, l’altra incapace di guidare il nuovo capitale. Entrambe bloccano ogni tentativo di riforma organica dello Stato economico.

Una Terza Via possibile: il corporativismo moderno

La Terza Via non è nostalgia, né utopia. È l’idea di un nuovo ordine sociale produttivo, di uno Stato che torna ad essere organico, fondato non sul conflitto ma sulla funzione, non sulla rendita ma sulla responsabilità reciproca.
Un corporativismo del XXI secolo, dove le categorie produttive – lavoratori, imprenditori, professionisti, tecnici – si organizzano non per contrapporsi ma per cooperare nella definizione dell’interesse nazionale.
Non si tratta di restaurare vecchi modelli, ma di costruire nuove istituzioni di partecipazione economica, autonome dalla politica partitica e dai sindacati ottocenteschi. Camere professionali, consigli produttivi, organismi territoriali di concertazione che agiscono per settori e filiere, integrando capitale umano e capitale finanziario in una visione comune di sviluppo.

Lo Stato come garante dell’unità, non come mediatore del conflitto

In questo nuovo paradigma, lo Stato non è più arbitro tra due poteri contrapposti – il sindacato e gli industriali – ma garante di una sintesi superiore, di un interesse generale che nasce dal basso, dalla collaborazione delle forze vive della Nazione.
Lo Stato torna ad avere una funzione strategica, non assistenziale: coordina, orienta, favorisce la formazione, l’innovazione, la produttività.
La rappresentanza non è più un privilegio storico, ma una funzione meritocratica e revocabile, fondata sulla competenza e sulla capacità di generare valore comune.

Superare la rendita del potere sociale

Il vero nodo è culturale: liberarsi dalla “rendita del potere sociale”.
CGIL e Confindustria si sono trasformate in burocrazie autoreferenziali, vive di contributi, relazioni e tavoli. Non producono più idee né visioni (se mai ne hanno prodotto), difendono strutture e in questo sono perfettamente speculari alla politica che dicono di criticare.
Per ricostruire una società organica occorre disintermediare il potere sterile e restituire voce diretta alle comunità produttive reali.

Verso un nuovo patto produttivo nazionale

Un patto produttivo moderno deve fondarsi su quattro pilastri:

- Partecipazione economica: lavoratori e imprenditori
compartecipano agli utili, alle decisioni, alla formazione e al destino dell’impresa.

- Rappresentanza funzionale: ogni categoria si organizza per competenza e settore, non per ideologia o appartenenza politica.

- Sussidiarietà attiva: lo Stato interviene dove il mercato o le comunità non bastano, ma non sostituisce l’iniziativa sociale.

- Etica produttiva: la ricchezza è un dovere sociale, non solo un diritto individuale.

Conclusione: il tempo della sintesi

CGIL e Confindustria sono monumenti di un tardo Novecento in una Nazione che ha bisogno di costruire il XXI secolo.
La Terza Via non è una posizione intermedia, ma un superamento dialettico del conflitto sterile. È la via del realismo politico e della responsabilità sociale.
O l’Italia avrà il coraggio di rompere il duopolio dell’assistenzialismo e della rendita, o continuerà a vivere prigioniera del proprio passato, mentre il mondo costruisce già l’economia organica del futuro.

mercoledì 15 ottobre 2025

Le JONS e l’Ideologia del Nazional-Sindacalismo Rivoluzionario in Spagna

Storia 

Le JONS e l’Ideologia del Nazional-Sindacalismo Rivoluzionario in Spagna (1931–1934)

1. Origini e contesto storico

La JONS – Juntas de Ofensiva Nacional-Sindicalista nacque nella Spagna della Seconda Repubblica, in un periodo di profonda crisi politica, economica e spirituale.
L’instabilità delle istituzioni, la polarizzazione tra sinistra e destra, l’avanzata del marxismo e il disordine sociale spinsero alcuni intellettuali giovani e radicali a cercare una “terza via rivoluzionaria”: una rigenerazione nazionale che superasse il liberalismo e il materialismo marxista.
La JONS vide la luce ufficialmente nel 1931, dall’incontro di due movimenti: le Juntas Castellanas de Actuación Hispánica fondate da Onésimo Redondo Ortega, e il Movimento Nazional-Sindacalista di Ramiro Ledesma Ramos.
Nel 1933, i due gruppi si unirono in una sola organizzazione, le Juntas de Ofensiva Nacional-Sindicalista, con il motto “Patria, Pan y Justicia” (“Patria, Pane e Giustizia”).
Fusione con la Falange Española: Nel 1934 la JONS si fuse con la Falange Española, fondata da José Antonio Primo de Rivera, figlio del capo del regime militarista spagnolo Miguel Primo de Rivera.
Dalla fusione nacque la Falange Española de las JONS (FE de las JONS), che combinò l’idealismo aristocratico di José Antonio con il radicalismo sociale della JONS.
Il nuovo partito assunse un carattere più organizzato e simbolico, con un linguaggio politico che esaltava la giovinezza, la disciplina e la lotta per la rinascita della Spagna.

2. I fondatori delle Giunte Offensive, Ramiro Ledesma Ramos e Onésimo Redondo

- Ramiro Ledesma Ramos
Nato nel 1905, Ledesma fu il principale teorico del movimento. Filosofo e giornalista, aveva una profonda conoscenza del pensiero europeo contemporaneo.
Influenzato da Ortega y Gasset, da Georges Sorel e dal fascismo italiano, Ledesma concepì il nazional-sindacalismo come una dottrina di azione, un movimento totale di rigenerazione spirituale e sociale della Spagna.
Egli rifiutava il parlamentarismo, il materialismo economico e la divisione in classi, proponendo una comunità nazionale unita da ideali, lavoro e disciplina.

- Onésimo Redondo Ortega
Originario di Valladolid, Redondo portava nel movimento un più forte elemento tradizionalista e cristiano. La sua visione integrava il sentimento rurale, religioso e patriottico della Castiglia con l’idea di una rivoluzione morale e nazionale.
Per Redondo, la JONS doveva essere la voce del “popolo lavoratore spagnolo”, in contrapposizione tanto all’oligarchia borghese quanto al marxismo internazionale.

3. L’essenza ideologica del nazional-sindacalismo

La JONS rappresentò un tentativo di creare una sintesi rivoluzionaria tra nazionalismo e sindacalismo.
La sua ideologia si può comprendere attraverso alcuni nuclei fondamentali:

a) Nazionalismo integrale
La Spagna era concepita come una unità storica, culturale e spirituale indivisibile.
La JONS vedeva nella nazione una realtà organica, anteriore all’individuo, e rifiutava ogni forma di regionalismo, separatismo o internazionalismo.
La missione storica della Spagna veniva interpretata come un compito eterno di civiltà e giustizia sociale, da riconquistare attraverso una rinascita spirituale.

b) Sindacalismo rivoluzionario
Sul piano sociale, la JONS proponeva la ristrutturazione dell’economia in senso sindacalista, abolendo il sistema capitalista e quello classista.
L’obiettivo era creare un’economia organizzata in corporazioni di produttori, in cui lavoratori e imprenditori collaborassero per il bene comune, eliminando la lotta di classe.
Questa concezione derivava dal sindacalismo rivoluzionario di Sorel, ma reinterpretato in chiave nazionale: la lotta non era più tra classi, ma tra forze che volevano distruggere o ricostruire la patria.

c) Antiliberalismo e antimarxismo
Il liberalismo veniva accusato di aver disgregato l’unità spirituale della nazione, riducendo l’uomo a individuo isolato e interessato solo al profitto.
Il marxismo, invece, era considerato una minaccia perché negava la patria e subordinava la Spagna a un progetto internazionale.
La JONS rivendicava una rivoluzione autenticamente spagnola, contro entrambe le ideologie “straniere”.

d) La giustizia sociale come missione nazionale
A differenza dei movimenti conservatori, la JONS proclamava la necessità di una rivoluzione sociale profonda, capace di ridare dignità al lavoro, superare le disuguaglianze e fondare un nuovo ordine basato sul servizio alla comunità.
Il lavoratore era considerato parte viva della nazione, non una classe separata.
Il motto “Pan y Justicia” riassumeva questa vocazione di giustizia, unita alla fedeltà alla patria.
e) L’idea di militanza e sacrificio
La JONS esaltava la militanza eroica, la giovinezza e il sacrificio personale per la nazione.
Il militante jonsista doveva essere un combattente morale e politico, disciplinato, idealista e disposto all’azione.
Ledesma scriveva che “la rivoluzione non si fa con i voti ma con il coraggio”, e che solo una minoranza attiva e cosciente poteva guidare la rigenerazione della Spagna.

4. Simboli e linguaggio politico

I simboli della JONS avevano una forte valenza mitica e nazionale.
Il giogo e le frecce, emblema dei Re Cattolici, rappresentavano l’unità della Spagna e la fusione di forza e disciplina.
Il saluto con il braccio alzato, le uniformi e la ritualità dei comizi sottolineavano l’idea di comunità militante.
Il linguaggio jonsista era diretto, combattivo, intriso di riferimenti alla terra, alla gioventù, al sacrificio e alla rinascita della patria.
Si parlava di “revolución nacional”, di “nueva España” e di “unidad de destino” come concetti spirituali e politici insieme.

5. La visione della cultura e della spiritualità

Per la JONS, la cultura non era un fatto accademico ma una forza di mobilitazione morale.
Ledesma invitava a creare una nuova intellettualità rivoluzionaria, capace di interpretare il destino storico della Spagna.
La spiritualità del movimento non era confessionale, ma profondamente trascendente: la nazione veniva vista come un valore sacro, superiore alle singole vite, e la rivoluzione come un atto quasi religioso di purificazione collettiva.

6. Eredità e significato storico

Tra il 1931 e il 1934 la JONS rappresentò una corrente innovativa e radicale nel panorama politico spagnolo.
Il suo nazional-sindacalismo rivoluzionario univa elementi di destra e sinistra, di modernità e tradizione, di idealismo e pragmatismo.
Pur restando un movimento numericamente limitato, esercitò un’influenza ideologica e simbolica notevole, destinata a proiettarsi negli sviluppi politici successivi.

7. Conclusione
La JONS fu molto più di un semplice gruppo
politico

fu un laboratorio di idee, un tentativo di rifondare la nazione spagnola su basi etiche e comunitarie.
La sua ideologia, fondata sulla fusione tra nazionalismo, rivoluzione e giustizia sociale, si colloca tra le esperienze più originali del pensiero politico europeo degli anni Trenta.
Nata dal desiderio di risvegliare l’anima della Spagna, la JONS lasciò un segno profondo come movimento di fede politica, di militanza e di ideale collettivo.

martedì 14 ottobre 2025

Il tradimento della classe lavoratrice e la fine dei sindacati. Ritorno all’ordine corporativo



C’è stato un tempo in cui i sindacati italiani sembravano rappresentare la spina dorsale della nazione. Sembravano essere la voce del lavoro, si credevano il contrappeso morale al potere economico ed il simbolo di una solidarietà che doveva unire il popolo nelle sue fatiche quotidiane. Oggi, quella pretesa (sincera o meramente  propagandistica) è svanita. Quello che rimane è un sistema sindacale per come può essere in realtà, tenendo conto della sua reale portata: frammentato, autoreferenziale, incapace di rappresentare la realtà produttiva della nazione.
Il tradimento non è stato improvviso, ma lento, metodico, quasi silenzioso.

Dalla scala mobile alla sottomissione salariale

Quando negli anni Ottanta venne smantellata la scala mobile, il meccanismo che tutelava i salari dall’inflazione, i sindacati accettarono la logica della “moderazione” in nome della stabilità macroeconomica. Fu il primo passo verso la resa: il lavoro subordinato cessò di essere una forza autonoma e divenne una variabile dipendente della finanza e dei mercati globali.
Invece di opporsi a un modello che precarizzava la vita, i sindacati scelsero il compromesso, barattando la dignità salariale con una presenza istituzionale sempre più sterile, concentrandosi sul sindacato di servizio, Caf, patronati al posto dei picchetti in fabbrica, 730 e isee in sostituzione degli scioperi. 

Articolo 18 e la resa sul diritto al lavoro

L’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori era il cuore pulsante della giustizia sociale in Italia: garantiva che nessuno potesse essere licenziato senza giusta causa o giustificato motivo. La sua esistenza ricordava che il lavoratore non è un ingranaggio sostituibile, ma una persona con dignità.
Eppure, con la Legge Fornero del 2012 e poi con il Jobs Act, questa tutela è stata demolita. I sindacati si limitarono a qualche manifestazione simbolica, senza una strategia reale di opposizione.
Così il diritto al lavoro è diventato una concessione, non più una certezza; e la classe lavoratrice, priva del suo scudo, è tornata vulnerabile come prima del 1970.

La Legge Fornero: la sconfitta accettata

La riforma Fornero non fu solo un insieme di norme tecniche: fu un atto politico di sottomissione ai dogmi del mercato. Pensioni posticipate, contratti più fragili, flessibilità estrema: un terremoto sociale che i sindacati accolsero con la rassegnazione di chi non crede più nella propria missione.
La reazione si esaurì in pochi giorni di protesta, senza un vero progetto alternativo. E quella rinuncia fu il punto di non ritorno: il momento in cui il lavoratore comprese che il sindacato non era più il suo difensore, ma il garante di un equilibrio che lo escludeva.

Il caso Green Pass: la capitolazione morale

Durante la pandemia, migliaia di lavoratori furono sospesi senza stipendio per la mancanza del green pass. I sindacati, anziché difendere il diritto costituzionale al lavoro, si rifugiarono dietro il linguaggio della “responsabilità sanitaria”.
Non si trattava di negare la "scienza", ma di ricordare che il lavoro è il fondamento della Repubblica. Lasciare senza reddito un padre o una madre di famiglia in nome di un certificato fu una violazione della giustizia sociale. E il silenzio sindacale fu una ferita profonda, che ancora oggi non si è rimarginata.
Un sistema ormai fragile e autoreferenziale
Il sindacalismo italiano è diventato un sistema chiuso, burocratico, sostenuto da fondi pubblici e da una fitta rete di patronati e servizi. Non più movimento di popolo, ma macchina amministrativa.
Nel frattempo, milioni di giovani lavorano senza contratto stabile, senza rappresentanza, senza fiducia. Il sindacato parla il linguaggio dei decreti, non più quello delle officine, dei cantieri, degli ospedali.
È la fine del sindacalismo di classe, ma non ancora l’inizio di una vera alternativa.

Verso una terza via: il ritorno all’organicità sociale

Ciò che serve non è un sindacato più “radicale”, ma un sistema nuovo, fondato sulla collaborazione e non sul conflitto: una visione corporativa moderna, dove lo Stato coordina e armonizza gli interessi dei lavoratori e delle imprese come parti di un unico organismo.
In questo modello, il lavoro non è merce ma missione sociale; il profitto non è fine, ma mezzo per il bene comune.
L’Italia deve ritrovare la propria unità produttiva: superare la guerra interna tra capitale e lavoro e ricostruire un patto nazionale fondato su responsabilità reciproca, partecipazione e giustizia.

Conclusione

Il sindacalismo contemporaneo ha perso la sua anima perché ha accettato la logica della divisione. Il futuro non può venire dal ritorno al passato, ma da una rinascita dell’idea di comunità nazionale del lavoro.
Solo una visione corporativa — che integri, non separi; che unisca, non contrapponga — potrà restituire dignità a chi lavora e forza morale a una nazione che troppo a lungo ha vissuto inginocchiata davanti al mercato.

lunedì 13 ottobre 2025

Verso uno Stato corporativo del XXI secolo: la terza via tra mercato e collettivismo


Nel mondo globalizzato di oggi, i due modelli economici che hanno dominato il secolo scorso – il liberal-capitalismo e il marxismo collettivista – mostrano le loro crepe profonde.
Il primo ha dissolto le comunità e generato una società di individui isolati, consumatori senza radici.
Il secondo, laddove è stato applicato, ha soffocato la libertà e distrutto la creatività sociale in nome di un egualitarismo astratto.
Oggi, l’Italia e l’Europa hanno bisogno di una nuova sintesi, una terza via sociale che recuperi i principi di responsabilità, partecipazione e solidarietà senza rinunciare alla libertà.

Questa sintesi potrebbe trovare forma in una rinascita del principio corporativo, reinterpretato in chiave moderna e partecipativa.

L’economia come comunità: oltre il mercato e lo Stato

Il mercato da solo non crea giustizia; lo Stato da solo non crea prosperità.
Entrambi, quando agiscono senza limiti, finiscono per ridurre l’uomo a strumento: nel capitalismo a consumatore, nel collettivismo a ingranaggio.
Il principio corporativo parte da un’idea opposta: l’economia non è un campo di battaglia, ma una comunità di funzioni, organica.
In questa prospettiva, l’impresa non è solo proprietà privata né organo dello Stato, ma istituzione sociale.
Chi vi lavora, chi investe e chi ne beneficia devono tutti partecipare, in proporzione, alla sua gestione e ai suoi risultati.
Non si tratta di abolire la proprietà, ma di socializzarla: renderla responsabile verso la comunità che la sostiene.

La socializzazione delle imprese nel futuro nazionale 

Nel modello corporativo
contemporaneo, l’impresa diventa un soggetto sociale oltre che economico.
Ogni azienda di dimensioni rilevanti potrebbe essere tenuta a includere nel proprio consiglio di amministrazione rappresentanti dei lavoratori, dei territori, o delle comunità di riferimento.
Gli utili non sarebbero solo profitto da distribuire agli azionisti, ma valore sociale da reinvestire in formazione, innovazione, welfare aziendale, ambientale e partecipazione economica dei lavoratori.
Questo modello non è utopia: in parte è già realtà in paesi come la Germania, dove la Mitbestimmung (cogestione) garantisce ai lavoratori un ruolo decisionale.
Ma in Italia, dove la cultura comunitaria e la solidarietà territoriale sono radici storiche profonde, questa visione può assumere un senso ancora più ampio: diventare un pilastro identitario del nostro modo di intendere l’economia.

Lo Stato come garante e coordinatore

In uno Stato corporativo democratico, il ruolo dello Stato non è quello di “gestire” tutto, ma di ordinare e coordinare le forze produttive.
Non centralizzare, ma armonizzare.
Non sostituirsi al lavoro e all’impresa, ma guidarli verso obiettivi di interesse nazionale: occupazione, benessere, innovazione, coesione.
Ciò significa riformare le istituzioni rappresentative dell’economia: camere del lavoro, dell’impresa, delle professioni, del terzo settore — vere e proprie “corporazioni moderne”, autonome ma integrate nel processo decisionale pubblico.
Lo Stato, in questo quadro, non sarebbe un arbitro esterno, ma un custode dell’ordine sociale, garante di equilibrio tra libertà economica e giustizia comunitaria.
Una democrazia partecipativa e organica
Il principio corporativo non nega la democrazia, la rinnova, la renderebbe non partitocratica, con in sostituzione le camere delle corporazioni dove ad essere eletti sono i rappresentanti dei lavoratori e dei settori, categoria per categoria.
Alla democrazia numerica, fondata solo sul voto individuale e sugli interessi di partito la risposta può essere  una democrazia funzionale, dove chi lavora, produce, crea valore partecipa direttamente alle decisioni che riguardano il suo settore.
Non più i partiti, ma corpi intermedi vivi: sindacati liberi, associazioni professionali, cooperative, camere produttive che dialogano e deliberano.
In questo modo, la rappresentanza torna a essere reale e concreta: non più delega passiva, ma partecipazione attiva.
L’obiettivo non è sostituire il Parlamento, ma integrarlo con un sistema di rappresentanza sociale, in cui le diverse componenti del lavoro e della produzione collaborano, non si combattono.

Principi della nuova economia sociale

Un moderno Stato corporativo si fonderebbe su alcuni pilastri chiari:
Lavoro come valore fondativo, non semplice merce di scambio.
Impresa come comunità, non come proprietà assoluta o ingranaggio statale.
Partecipazione dei lavoratori alle scelte e ai profitti.
Interesse nazionale come fine ultimo dell’attività economica.
Solidarietà verticale e orizzontale tra classi, territori e generazioni.
Sussidiarietà e responsabilità, contro ogni burocrazia sterile.
Perché oggi
Nel mondo globalizzato, la sovranità economica è la nuova frontiera della libertà.
Chi non controlla la propria economia, chi lascia che le proprie industrie, filiere e risorse dipendano da capitali anonimi e da logiche speculative, non è più uno Stato sovrano.
Il modello corporativo contemporaneo rappresenta una via per riconquistare la sovranità economica senza rinunciare alla libertà.
Non è nostalgia, ma una proposta di futuro: una società dove produzione, capitale e lavoro tornino a essere parti di un unico destino comune.
Conclusione: il futuro della giustizia sociale
La crisi del neoliberismo e l’esaurimento del collettivismo ci lasciano davanti a una scelta: continuare a galleggiare nel disordine globale, o costruire un nuovo ordine sociale fondato sulla collaborazione, la responsabilità e la dignità del lavoro.
Uno Stato corporativo del XXI secolo, democratico e partecipativo, può essere la forma politica di questa rinascita.
Non un ritorno al passato, ma una riconquista di senso: l’economia al servizio della comunità, la politica al servizio del popolo, lo Stato al servizio della giustizia.

Riconquistare lo Stato Sociale: il dovere di una nuova giustizia nazionale


L’Italia di oggi è una nazione ferita. 

Ferita da decenni di politiche liberiste, da tagli ciechi allo Stato Sociale, da una economia sempre più piegata ai voleri dei mercati e sempre meno capace di difendere chi lavora, cresce figli o semplicemente chiede di vivere con dignità.

Lo Stato Sociale, una delle conquiste più alte, che ebbe principio nel 1922 per poi essere progressivamente svuotato dall’interno dai primi anni '90. 
Ciò che doveva essere strumento di coesione nazionale è diventato un sistema burocratico, diseguale, incapace di proteggere davvero gli italiani più fragili.

Un popolo impoverito e disilluso

I numeri non lasciano spazio a interpretazioni.
Oltre il 23% degli italiani è oggi a rischio di povertà o esclusione sociale, e più di 2,2 milioni di famiglie vivono in povertà assoluta. Si tratta di quasi 6 milioni di persone.

E non parliamo più soltanto dei “senza lavoro”: sempre più spesso la povertà colpisce chi un lavoro ce l’ha, ma è precario, sottopagato, senza tutele. È la fotografia di una nazione dove il lavoro non basta più a vivere, dove le famiglie con figli sono penalizzate, dove i giovani rinunciano a mettere radici perché non intravedono futuro.
È una crisi non solo economica, ma morale e identitaria.

Una Italia che smette di proteggere i suoi cittadini perde se stesso, perde il senso di comunità, di appartenenza, di destino condiviso.

Il Mezzogiorno dimenticato, le periferie abbandonate
La frattura territoriale è diventata una ferita aperta.
Il Mezzogiorno continua a pagare un prezzo altissimo, con servizi pubblici carenti, sanità in difficoltà e disoccupazione giovanile record.
Ma la marginalità non è più solo geografica: anche le periferie del Nord e delle grandi città si stanno trasformando in deserti sociali, dove lo Stato è assente e il disagio cresce.

L’autonomia differenziata e il decentramento finiranno per amplificare queste disuguaglianze.
Un’Italia a due velocità non è una nazione: è una somma di solitudini.
Ritrovare l’unità sociale della nazione significa tornare a un welfare nazionale, uguale per tutti, capace di garantire gli stessi diritti da Bolzano a Palermo.

Il sistema sanitario: un bene comune da difendere

Il Servizio Sanitario Nazionale è stato per decenni uno dei simboli della nostra civiltà.
Oggi, invece, è in ginocchio: carenza di medici, liste d’attesa infinite, ospedali al collasso.
Troppi giovani sanitari formati in Italia emigrano all’estero perché trovano salari più alti e condizioni migliori. Lo Stato investe per formarli, ma poi li perde.
Questo è il frutto di una logica miope che ha trattato la sanità come un costo da ridurre, non come una ricchezza da difendere.
Difendere la sanità pubblica non significa tornare all’assistenzialismo, ma rimettere la persona al centro.
La salute non è un privilegio, è un diritto, e deve essere garantito da una rete nazionale efficiente, moderna e giusta.

Contro l’assistenzialismo sterile, per un welfare del lavoro e della famiglia.

Lo stato sociale non deve trasformarsi in una macchina di sussidi che disincentiva l’impegno e produce dipendenza.
Ma nemmeno può ridursi a un sistema minimale di carità pubblica.
Serve un welfare produttivo, che premi chi lavora, chi studia, chi costruisce una famiglia.
Un welfare che sostenga la natalità, l’infanzia, la maternità, che consenta alle donne di lavorare senza dover scegliere tra carriera e figli.
Un welfare che protegga gli anziani, ma senza dimenticare i giovani.
E soprattutto un welfare che metta gli italiani al centro, senza distinzione, ma anche senza confusione: chi ha contribuito di più, chi ha costruito questa nazione, deve sentirsi tutelato per primo.
Sovranità sociale: rimettere lo Stato al servizio del popolo
La vera riforma non è tecnica, è culturale.
Occorre rifiutare l’idea che il welfare debba piegarsi ai vincoli di bilancio europei o ai parametri imposti da Bruxelles.
La sovranità sociale è parte della sovranità nazionale: uno Stato libero decide da sé come proteggere i propri cittadini, senza delegare a poteri esterni il destino del proprio popolo.

La spesa sociale non è un costo, è un investimento.
Ogni euro destinato a un asilo nido, a un ospedale, a un programma per la natalità è un euro speso per la sopravvivenza della comunità.
Il mercato da solo non salva nessuno: a tenere insieme un popolo è la solidarietà, non la concorrenza.
Un nuovo patto sociale italiano
Riformare lo stato sociale significa restaurare un’idea di giustizia nazionale.
Un patto tra cittadini e Stato fondato su tre principi:
Lavoro come diritto e dovere, non come privilegio.

Famiglia come pilastro della comunità, da sostenere
concretamente, non solo a parole.
Stato come garante della dignità, non come burocrate o contabile.
L’Italia deve tornare a essere una comunità solidale e sovrana, non una periferia di un’economia globale senza volto.
Serve una rivoluzione morale, prima ancora che economica: ricostruire il senso di appartenenza, di reciprocità, di responsabilità collettiva.
Conclusione: il tempo della ricostruzione
Non si tratta di nostalgia del passato, ma di giustizia nel presente.

Lo Stato sociale è nato per proteggere il popolo; oggi deve rinascere per restituirgli dignità.

Finché milioni di italiani vivranno di lavori precari, pensioni minime e sanità negata, non potremo dirci una nazione compiuta.
Difendere il welfare non è una battaglia di parte, è una battaglia di civiltà.
E chi crede nella sovranità, nel lavoro e nella famiglia non può restare spettatore.
È tempo di ricostruire uno Stato che torni a essere davvero dalla parte del suo popolo.

domenica 12 ottobre 2025

FASCISMI NEL MONDO (PARTE 1): LE CAMICIE D'ARGENTO AMERICANE

RUBRICA STORICA: PARTE 1

La "Legione d’Argento d'America" : il movimento americano ispirato ai fascismi europei

Fondazione: 1933
Dissoluzione: 1941
Capo: William Dudley Pelley
Membri in divisa: 15.000
Ideologia: 
- Fascismo clericale
- Conservatorismo sociale
- Nazionalismo,
- Corporativismo
- Anticomunismo 
- Isolazionismo 

William Dudley Pelley

Nel gennaio del 1933,
mentre il nazionalsocialismo  saliva al potere e l'Italia era fascista da un decennio abbondante, negli Stati Uniti nasceva un movimento che cercava di imitarne i principi: 

La Legione d’Argento d’America.

 A fondarla fu William Dudley Pelley (scrittore, giornalista, sceneggiatore e mistico cristiano), già noto per i suoi lavori letterari su misticismo cristiano e tradizionalismo.

Nel 1931, Pelley aveva cominciato a diffondere teorie politiche basate sulle sue visioni politiche mutuate dai fascismi europei.

Con la sua Legione, intendeva realizzare un “rinnovamento spirituale e politico”, forte anche della sua esperienza e formazione di docente di corsi di 
"Metafisica sociale" ed "Economia cristiana" che organizzava dal 1929.

Tra le proposte politiche lanciate, quella del reddito di cittadinanza, ma solo per i cittadini americani nativi. 

Il simbolo scelto dal movimento era una “L” rossa, emblema che rimandava al nome del gruppo ma anche a tre parole chiave: Love (amore), Lealtà (verso gli Stati Uniti) e Liberazione (dal materialismo).

L’organizzazione pubblicava un settimanale, Liberation, attraverso il quale il fondatore diffondeva le sue teorie e le parole d'ordine del movimento che aveva in sé l'idea di corporativismo e di fascismo clericale. 


I membri della Legione vestivano un’uniforme in stile paramilitare: pantaloni blu, gambali, cravatta e una camicia grigio argento con la “L” scarlatta cucita sul petto. Non a caso, la stampa li soprannominò “camicie d’argento”, richiamando le camicie nere del fascismo italiano e le camicie brune tedesche.

Nel 1934, la Legione contava circa 15.000 aderenti in divisa, appartenenti alla working Class.

Pelley tentò un salto politico presentandosi alle elezioni presidenziali con il suo Christian Party, immaginando di instaurare una “rivoluzione d’argento” e di governare gli Stati Uniti come Chief — un titolo modellato sui termini Führer e Duce.
Ma i risultati elettorali furono deludenti e il suo progetto, però, naufragò con la vittoria di Franklin D. Roosevelt, a cui continuava a indirizzate la sua ostilità politica e propagandistica.

La Legione comunque ancora viva e forte, faceva paura e dopo l’attacco di Pearl Harbor nel 1941 e l’entrata in guerra degli Stati Uniti contro le potenze dell’Asse, il governo federale dichiarò l’organizzazione illegale. L’FBI la smantellò, ponendo fine al sogno d'instaurazuone di un regime da parte di Pelley e dei suoi seguaci.

Pelley fu arrestato per cospirazione sediziosa nel 1942 e rilasciato solo nel 1950.


Negli USA furono molti i movimenti di ispirazione fascista, tra cui quelli fortemente legati alle comunità di emigrati Italiani e tedeschi che avevano una certa corposità ed erano in contatto con i regimi dei rispettivi paesi, ma le camicie d'argento, (al di là delle stravaganze extra-politiche del proprio leader) rappresentarono il tentativo più significativo in termini di numeri raggiunti e di aderenti, e sicuramente il modello più riconoscibilmente statunitense.