C’è stato un tempo in cui i sindacati italiani sembravano rappresentare la spina dorsale della nazione. Sembravano essere la voce del lavoro, si credevano il contrappeso morale al potere economico ed il simbolo di una solidarietà che doveva unire il popolo nelle sue fatiche quotidiane. Oggi, quella pretesa (sincera o meramente propagandistica) è svanita. Quello che rimane è un sistema sindacale per come può essere in realtà, tenendo conto della sua reale portata: frammentato, autoreferenziale, incapace di rappresentare la realtà produttiva della nazione.
Il tradimento non è stato improvviso, ma lento, metodico, quasi silenzioso.
Dalla scala mobile alla sottomissione salariale
Quando negli anni Ottanta venne smantellata la scala mobile, il meccanismo che tutelava i salari dall’inflazione, i sindacati accettarono la logica della “moderazione” in nome della stabilità macroeconomica. Fu il primo passo verso la resa: il lavoro subordinato cessò di essere una forza autonoma e divenne una variabile dipendente della finanza e dei mercati globali.
Invece di opporsi a un modello che precarizzava la vita, i sindacati scelsero il compromesso, barattando la dignità salariale con una presenza istituzionale sempre più sterile, concentrandosi sul sindacato di servizio, Caf, patronati al posto dei picchetti in fabbrica, 730 e isee in sostituzione degli scioperi.
Articolo 18 e la resa sul diritto al lavoro
L’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori era il cuore pulsante della giustizia sociale in Italia: garantiva che nessuno potesse essere licenziato senza giusta causa o giustificato motivo. La sua esistenza ricordava che il lavoratore non è un ingranaggio sostituibile, ma una persona con dignità.
Eppure, con la Legge Fornero del 2012 e poi con il Jobs Act, questa tutela è stata demolita. I sindacati si limitarono a qualche manifestazione simbolica, senza una strategia reale di opposizione.
Così il diritto al lavoro è diventato una concessione, non più una certezza; e la classe lavoratrice, priva del suo scudo, è tornata vulnerabile come prima del 1970.
La Legge Fornero: la sconfitta accettata
La riforma Fornero non fu solo un insieme di norme tecniche: fu un atto politico di sottomissione ai dogmi del mercato. Pensioni posticipate, contratti più fragili, flessibilità estrema: un terremoto sociale che i sindacati accolsero con la rassegnazione di chi non crede più nella propria missione.
La reazione si esaurì in pochi giorni di protesta, senza un vero progetto alternativo. E quella rinuncia fu il punto di non ritorno: il momento in cui il lavoratore comprese che il sindacato non era più il suo difensore, ma il garante di un equilibrio che lo escludeva.
Il caso Green Pass: la capitolazione morale
Durante la pandemia, migliaia di lavoratori furono sospesi senza stipendio per la mancanza del green pass. I sindacati, anziché difendere il diritto costituzionale al lavoro, si rifugiarono dietro il linguaggio della “responsabilità sanitaria”.
Non si trattava di negare la "scienza", ma di ricordare che il lavoro è il fondamento della Repubblica. Lasciare senza reddito un padre o una madre di famiglia in nome di un certificato fu una violazione della giustizia sociale. E il silenzio sindacale fu una ferita profonda, che ancora oggi non si è rimarginata.
Un sistema ormai fragile e autoreferenziale
Il sindacalismo italiano è diventato un sistema chiuso, burocratico, sostenuto da fondi pubblici e da una fitta rete di patronati e servizi. Non più movimento di popolo, ma macchina amministrativa.
Nel frattempo, milioni di giovani lavorano senza contratto stabile, senza rappresentanza, senza fiducia. Il sindacato parla il linguaggio dei decreti, non più quello delle officine, dei cantieri, degli ospedali.
È la fine del sindacalismo di classe, ma non ancora l’inizio di una vera alternativa.
Verso una terza via: il ritorno all’organicità sociale
Ciò che serve non è un sindacato più “radicale”, ma un sistema nuovo, fondato sulla collaborazione e non sul conflitto: una visione corporativa moderna, dove lo Stato coordina e armonizza gli interessi dei lavoratori e delle imprese come parti di un unico organismo.
In questo modello, il lavoro non è merce ma missione sociale; il profitto non è fine, ma mezzo per il bene comune.
L’Italia deve ritrovare la propria unità produttiva: superare la guerra interna tra capitale e lavoro e ricostruire un patto nazionale fondato su responsabilità reciproca, partecipazione e giustizia.
Conclusione
Il sindacalismo contemporaneo ha perso la sua anima perché ha accettato la logica della divisione. Il futuro non può venire dal ritorno al passato, ma da una rinascita dell’idea di comunità nazionale del lavoro.
Solo una visione corporativa — che integri, non separi; che unisca, non contrapponga — potrà restituire dignità a chi lavora e forza morale a una nazione che troppo a lungo ha vissuto inginocchiata davanti al mercato.