Critica
Da oltre settant’anni, la vita economica e politica italiana è ostaggio di un duopolio che si traveste da pluralismo: CGIL e Confindustria e degli altri grandi sindacati e grandi associazioni di categoria.
Due colonne di un sistema che si proclama rappresentativo ma che, in realtà, difende sé stesso. Due poteri speculari che vivono l’uno dell’altro, come avversari teatrali che recitano la parte del conflitto per mantenere lo stesso copione: quello di una società immobile, ingessata tra burocrazia, assistenzialismo e rendite di posizione.
Il duopolio che é diventato sistema dagli anni '50 Novecento
CGIL e Confindustria sono nate in un secolo industriale, in un’economia di fabbriche e catene di montaggio, in un’Italia in cui capitale e lavoro erano due blocchi contrapposti. Ma oggi quel mondo non esiste più.
Il conflitto "fordista" è un fossile. Il lavoratore è diventato freelance, precario, professionista digitale. L’impresa non è più la fabbrica, ma una rete, una start-up, una piattaforma. Eppure i nostri corpi intermedi restano inchiodati al secolo scorso, difendendo rendite sindacali e padronali, e una cultura economica che non sa generare valore ma solo rivendicare o distribuire quello che c’è.
CGIL e Confindustria, nel loro reciproco immobilismo, sono due facce della stessa conservazione: l’una incapace di rappresentare il nuovo lavoro, l’altra incapace di guidare il nuovo capitale. Entrambe bloccano ogni tentativo di riforma organica dello Stato economico.
Una Terza Via possibile: il corporativismo moderno
La Terza Via non è nostalgia, né utopia. È l’idea di un nuovo ordine sociale produttivo, di uno Stato che torna ad essere organico, fondato non sul conflitto ma sulla funzione, non sulla rendita ma sulla responsabilità reciproca.
Un corporativismo del XXI secolo, dove le categorie produttive – lavoratori, imprenditori, professionisti, tecnici – si organizzano non per contrapporsi ma per cooperare nella definizione dell’interesse nazionale.
Non si tratta di restaurare vecchi modelli, ma di costruire nuove istituzioni di partecipazione economica, autonome dalla politica partitica e dai sindacati ottocenteschi. Camere professionali, consigli produttivi, organismi territoriali di concertazione che agiscono per settori e filiere, integrando capitale umano e capitale finanziario in una visione comune di sviluppo.
Lo Stato come garante dell’unità, non come mediatore del conflitto
In questo nuovo paradigma, lo Stato non è più arbitro tra due poteri contrapposti – il sindacato e gli industriali – ma garante di una sintesi superiore, di un interesse generale che nasce dal basso, dalla collaborazione delle forze vive della Nazione.
Lo Stato torna ad avere una funzione strategica, non assistenziale: coordina, orienta, favorisce la formazione, l’innovazione, la produttività.
La rappresentanza non è più un privilegio storico, ma una funzione meritocratica e revocabile, fondata sulla competenza e sulla capacità di generare valore comune.
Superare la rendita del potere sociale
Il vero nodo è culturale: liberarsi dalla “rendita del potere sociale”.
CGIL e Confindustria si sono trasformate in burocrazie autoreferenziali, vive di contributi, relazioni e tavoli. Non producono più idee né visioni (se mai ne hanno prodotto), difendono strutture e in questo sono perfettamente speculari alla politica che dicono di criticare.
Per ricostruire una società organica occorre disintermediare il potere sterile e restituire voce diretta alle comunità produttive reali.
Verso un nuovo patto produttivo nazionale
Un patto produttivo moderno deve fondarsi su quattro pilastri:
- Partecipazione economica: lavoratori e imprenditori
compartecipano agli utili, alle decisioni, alla formazione e al destino dell’impresa.
- Rappresentanza funzionale: ogni categoria si organizza per competenza e settore, non per ideologia o appartenenza politica.
- Sussidiarietà attiva: lo Stato interviene dove il mercato o le comunità non bastano, ma non sostituisce l’iniziativa sociale.
- Etica produttiva: la ricchezza è un dovere sociale, non solo un diritto individuale.
Conclusione: il tempo della sintesi
CGIL e Confindustria sono monumenti di un tardo Novecento in una Nazione che ha bisogno di costruire il XXI secolo.
La Terza Via non è una posizione intermedia, ma un superamento dialettico del conflitto sterile. È la via del realismo politico e della responsabilità sociale.
O l’Italia avrà il coraggio di rompere il duopolio dell’assistenzialismo e della rendita, o continuerà a vivere prigioniera del proprio passato, mentre il mondo costruisce già l’economia organica del futuro.