Per quasi settant’anni l’IRI — Istituto per la Ricostruzione Industriale — ha rappresentato la spina dorsale dell’economia italiana. Nato nel 1933 e voluto dal fascismo in piena crisi economica globale, fu la risposta dello Stato alla bancarotta del sistema finanziario privato e al collasso industriale.
L’IRI non fu solo un ente pubblico: fu la mano concreta con cui l’Italia costruì la sua modernità, un modello di capitalismo nazionale capace di coniugare sviluppo, lavoro e sovranità economica.
Il miracolo industriale italiano
Dalla siderurgia alle telecomunicazioni, dai trasporti all’energia, l’IRI fu protagonista di una stagione di crescita senza precedenti.
Negli anni ’50 e ’60 le sue partecipazioni industriali — Italsider, Alfa Romeo, Finmeccanica, SIP, Alitalia — trasformarono l’Italia da paese agricolo a potenza industriale.
Sotto la sua ala nacquero eccellenze tecnologiche, infrastrutture strategiche e milioni di posti di lavoro stabili.
Era l’epoca in cui lo Stato non si vergognava di fare impresa, ma anzi guidava lo sviluppo nazionale con visione e responsabilità.
Il progressivo smantellamento
Dagli anni ’90, però, iniziò la demolizione sistematica di quell’apparato.
Con la retorica del “libero mercato” e della “modernizzazione”, l’Italia aderì alle politiche di privatizzazione spinte da Bruxelles e Washington.
Il governo Prodi e quelli successivi svendettero pezzo dopo pezzo il patrimonio pubblico accumulato in decenni.
Telecom Italia, Autostrade, Alitalia, Italsider — simboli dell’ingegno e della forza produttiva del Paese — furono ceduti a capitali privati, spesso stranieri, in nome dell’efficienza e della concorrenza.
Il risultato? Un Paese deindustrializzato, privo di poli strategici, dipendente da capitali esteri e incapace di pianificare il proprio futuro economico.
Dallo Stato imprenditore allo Stato spettatore
La scomparsa dell’IRI ha significato la fine di un modello di Stato che difendeva l’interesse nazionale.
Oggi l’Italia non controlla più i suoi asset fondamentali: energia, telecomunicazioni, trasporti, difesa.
Le decisioni che contano non si prendono più a Roma, ma nei consigli di amministrazione di fondi internazionali o nelle sedi di Bruxelles.
Abbiamo confuso l’apertura dei mercati con la resa della sovranità economica.
E il conto, salatissimo, lo pagano i lavoratori, le imprese e i territori dimenticati dal nuovo capitalismo globale.
Una nazione da ricostruire
Il dibattito sul ritorno di una regia pubblica nell’economia non è nostalgia: è realismo.
Senza una strategia nazionale per l’industria, l’Italia rischia di restare una piattaforma turistica e di servizi, priva di peso produttivo.
L’IRI, dimostrò che lo Stato può essere un attore efficiente, innovativo e patriottico.
Rimettere in moto un meccanismo simile oggi non significherebbe tornare al passato, ma recuperare l’idea che l’economia deve servire la Nazione, non il contrario.
Conclusione
L’IRI non era solo una struttura amministrativa: era un simbolo di sovranità economica.
Smantellarlo ha significato rinunciare alla capacità di decidere del nostro destino industriale.
Oggi, nel pieno delle crisi globali, l’Italia scopre di non possedere più le leve per difendere se stessa.
Forse è giunto il momento di riscoprire quella lezione dimenticata: senza industria nazionale non c’è indipendenza, e senza indipendenza non c’è futuro.