sabato 25 ottobre 2025

Il regionalismo é il cancro della pubblica amministrazione, ritorno allo Stato centrale


STOP REGIONALISMO 

Con l'istituzione prima delle regioni a statuto speciale ed infine quelle a statuto ordinario nel 1970 si annunciava un decentramento virtuoso, un avvicinamento della politica al cittadino.
Così non é stato ed oggi il quadro disastroso sarà completato dalla .

Possiamo dire che è stato un disastro epocale per lo Stato centrale e per il buon uso del denaro pubblico. 
Le Regioni sono diventate il male peggiore dell’Italia dei servizi.

Vediamo perché:

1. Costi enormi e costanti
Le Regioni gestiscono una fetta considerevole della spesa pubblica. Secondo uno studio dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, la quota di spesa pubblica delle Regioni era al picco nel 2007 circa al 22 % del totale, ed è scesa solo marginalmente fino al circa 18-19 % nel 2023. 
Nel 2023 lo Stato ha speso circa €852,2 miliardi, di cui €340,8 miliardi destinati alle Regioni (quasi il 40 %) — una cifra impressionante. Se queste risorse ogni anno fossero gestite in modo centralizzato, con snellimento, si avrebbe molto margine di risparmio e di efficienza.
(Università Cattolica del Sacro Cuore)

2. Burocrazia da record
E non è solo questione di spesa: la burocrazia che le Regioni generano è uno dei freni più pesanti all’economia. Uno studio della CGIA di Mestre stima che le imprese italiane sostengano costi per la gestione dei rapporti con la Pubblica Amministrazione — a livello regionale in gran parte — pari a €57,2 miliardi l’anno. 
Ad esempio:
bluetu.it
In Lombardia, il costo stimato per le imprese è circa €13,105 milioni. 
In Sicilia circa €2,932 milioni. 
E ancora: si legge che nei Comuni la burocrazia “pesa” per la gestione degli adempimenti ridondanti, specialmente nelle amministrazioni regionali di supporto. 
Questo non è progresso, è zavorra.

3. Personale pagato profumatamente, senza controllo
Nelle Regioni a statuto “molto speciale” si registrano compensi per il personale elevatissimi: la Ragioneria Generale dello Stato quantifica per la sola Sicilia, al 31 dicembre 2020, una spesa per il personale regionale pari a €666,7 milioni. 
Quanto al resto, si stima che la spesa delle Regioni in anni recenti per il personale continui a crescere. 
In buona sostanza: un’enorme macchina fatta di enti, uffici, figure dirigenziali regionali, che non dà contropartita in termini di efficienza reale.
QdS
(bancaditalia.it)

4. Disparità tra Regioni, disuguaglianze e sprechi
Le Regioni italiane non sono tutte uguali. In alcune zone i cittadini pagano molto, ricevono poco, e subiscono ancora una pesante frammentazione. Per esempio:
La spesa statale regionalizzata pro capite nel 2021 per la Valle d’Aosta era circa €18 400. 
(Istat +1)
Mentre in regioni del Mezzogiorno come la Campania, circa tra €10 500 e €11 300 pro capite. 
Pensate: lo Stato centrale deve trasferire enormi cifre in sistemi regionali diversi, con risultato spesso diseguale, inefficiente, e con servizi che in certe zone funzionano male.
(Istat)

5. Il regionalismo e lo Stato centrale: 
una relazione distorta
Il modello regionale avrebbe dovuto avvicinare la politica al cittadino. Ma l’effetto reale è stato quello di creare una moltiplicazione di livelli decisionali, di burocrazia, di enti intermediari che obbligano lo Stato centrale a “controllare” piuttosto che governare.
Un modello che avrebbe potuto essere utile se gestito con rigore, ma che nella realtà italiana si è trasformato in degenerazione: sovrapposizioni, duplicazioni, costi di struttura altissimi.
E quel che è peggio: lo Stato centrale, che dovrebbe guidare, spesso viene scaricato di responsabilità e deve supplire alle Regioni in crisi, con maggiore spesa, specialmente nelle emergenze (tema sanitario, infrastrutture, coesione).

6. Perché “smantellarle” è la via maestra
Se fossi chiamato a suggerire una riforma radicale, direi: cancellazione del modello regionale così com’è, restituzione della competenza ampia allo Stato centrale o almeno forte riduzione delle autonomie regionali. Prima del 1980, quando le Regioni esistevano ma non gestivano gran parte della spesa, lo Stato centrale aveva un ruolo più forte, una visione unitaria e – onestamente – meno dispersione.
Le ragioni:
Riduzione dei livelli burocratici: meno controlli incrociati, meno enti, taglio dei costi “Regione + ente locale + servizio sanitario regionale”.
Maggiore equità territoriale: lo Stato centrale assume la distribuzione delle risorse, evita che la sanità in una Regione sia migliore e in un’altra sia alla deriva.
Efficienza nella spesa: le risorse concentrate in un’unica catena decisionale possono essere allocate meglio, con minor spreco, con maggior trasparenza.
Responsabilità chiara: quando le Regioni gestiscono, la responsabilità è frammentata; lo Stato che governa ha un solo indirizzo, una sola visione, una sola responsabilità.

7. Qualche cifra per rimarcare
Le Regioni gestiscono ~190 miliardi di spesa primaria nel 2023 secondo l’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Le imprese sostengono ~57,2 miliardi all’anno di costi legati alla burocrazia regionale. 
In alcune Regioni, per convegni e manifestazioni, spese notevolissime: per esempio, la Sicilia nel 2022 ha speso ~€12,943,999,51 solo per organizzazione e partecipazione a manifestazioni e convegni. 
L'Identità
In alcune regioni, spese per incarichi e consulenze: la Calabria nel 2021 ha speso ~€2,384,435,49 per incarichi liberi-professionali. 
(Unindustria)

8. la Regione come parassita
In definitiva
le Regioni – nate con buone intenzioni – sono diventate un vero e proprio parassita della macchina pubblica italiana. Moltiplicano costi, moltiplicano livelli, aumentano la burocrazia, generano inefficienze territoriali e gestionali, gravano sullo Stato centrale che ne finisce per farsi carico.
Se vogliamo un’Italia più snella, più efficiente, più giusta, è necessario tornare a un forte ruolo centrale dello Stato, ridurre drasticamente le autonomie regionali — non per smantellare il decentramento in senso astratto, ma per evitare che il decentramento significhi semplicemente “più enti, più costi, meno responsabilità”.
Il modello attuale delle Regioni è il male peggiore per l’Italia: serve inversione di marcia.

Costi e stipendi nei parlamenti regionali

Una delle principali voci di spreco deriva dagli “apparati” politici regionali — assemblee, consigli, giunte, presidenti — che costano molto e sono poco controllabili.
Secondo la legge n. 34/2012, per esempio, uno assessore regionale può percepire fino a €12.600 lordi al mese: circa €7.000 come indennità di carica + €1.500 indennità di funzione + circa €4.100 di spese di esercizio. 
(La Nazione)

Per un consigliere regionale, lo stipendio lordo può raggiungere €11.100 al mese (7.000 indennità di carica + 4.100 spese esercizio), e salire a ~€12.300 se ricopre incarichi particolari, presidente di gruppo, commissione.
(La Nazione)

In concreto, ad esempio al Consiglio Regionale della Calabria il rendiconto 2024 segnala un costo complessivo del personale e della macchina burocratica di oltre €24 milioni. 
(Corriere della Calabria)

Non dimentichiamo che lo studio “Cara politica, ma quanto ci costi?” stimava che la politica — includendo regioni, enti locali, parlamentari — costasse circa €2,5 miliardi/anno solo per gli emolumenti, rimborsi, pensioni ecc. 

Questi numeri suggeriscono che le regioni non sono solo “enti amministrativi”, ma veri e propri centri di elevato spreco, spesso con scarso ritorno in termini di efficienza e servizi.

Il settore sanitario regionale: spesa gigante, diseguaglianze e operatività inadeguata

Dal lato della sanità — che è la voce principale delle spese regionali — emergono ulteriori criticità.
Le regioni gestiscono circa il 70 % delle loro risorse (in media) proprio per la sanità. 
(Università Cattolica del Sacro Cuore)

Tra il 2021 e il 2023 la spesa sanitaria complessiva Regionale è passata da ~€139,9 miliardi a ~€152,9 miliardi. 
(Sanitask)

La spesa sanitaria pro-capite nel 2023 varia molto: regioni come la Trentino‑Alto Adige (€3.621,8) e la Valle d’Aosta (€3.502,9) sono ai vertici, mentre la Campania (€2.643,5) e la Calabria (€2.626,1) sono in fondo. 
(CREA Sanità)

La realtà è che, nonostante queste spese, solo 13 Regioni su 20 rispettano i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). 
(A.R.I.S.)

Inoltre, la spesa delle Regioni per servizi sanitari privati convenzionati ha superato i tetti previsti: ad esempio ~€13,1 miliardi nel 2023. 
(Fsi Nazionale)

E i disavanzi: nel 2024 il saldo negativo complessivo delle Regioni era di ~€1,5 miliardi prima delle coperture. 
(Nurse24.it)

Quindi: gestiscono enorme quantità di risorse, ma con risultati altalenanti, disparità tra regioni del Nord e del Sud, controlli deboli, e una burocrazia che si mangia parte delle risorse.

Perché questi dati rafforzano la critica al modello regionale

Se le regioni costano così tanto sotto il profilo politico-amministrativo (stipendi elevati, strutture complesse) senza garantire uniformemente servizi efficienti, allora il decentramento ha fallito la sua promessa di efficienza.
Se la sanità regionale diverge così tanto tra territori, lo Stato centrale perde la capacità di garantire equità e solidarietà nazionale: la “regione”  é un fardello per il popolo italiano.
Il fatto che grandi quantità di soldi vengano “spese” (o mal spese) a livello regionale e privata convenzionata suggerisce che la struttura regionale facilita i costi 

Le Regioni “speciali”: l’apoteosi dello spreco

Le Regioni a statuto speciale – Sicilia, Sardegna, Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia – dovevano rappresentare l’eccezione virtuosa.
Oggi, invece, sono il simbolo dell’ineguaglianza istituzionale.
Solo la Sicilia, al 31 dicembre 2020, ha speso oltre 666 milioni di euro per il personale regionale.
La Valle d’Aosta, con 120 mila abitanti, spende pro capite più dello Stato per ogni cittadino.
Sono privilegi che nessuno Stato moderno dovrebbe più tollerare.

Sono privilegi che nessuno Stato moderno dovrebbe più tollerare.

L’autonomia differenziata aggrava il caos e le disuguaglianze già prodotte dalle Regioni

Significa dare ancora più poteri e risorse a quelle regioni che già funzionano bene, lasciando indietro quelle che sono in difficoltà.
Il risultato sarebbe un’Italia a due (o tre) velocità: un Nord che decide tutto da sé, con più soldi e competenze, e un Sud che resta dipendente, con meno servizi e meno opportunità.
In pratica:
le regioni ricche tratterrebbero più gettito fiscale, riducendo le risorse disponibili per la solidarietà nazionale;
lo Stato centrale perderebbe il suo ruolo di garante dell’uguaglianza;
i servizi fondamentali (sanità, scuola, trasporti) diventerebbero ancora più disomogenei, con diritti diversi a seconda del CAP in cui si nasce;
e la burocrazia raddoppierebbe, perché ogni Regione avrebbe norme, contratti e procedure proprie.
In sintesi: l’autonomia differenziata non corregge il regionalismo, lo porta all’estremo, fino a spezzare definitivamente l’unità amministrativa e sociale del Paese.
È la prosecuzione del disastro con altri mezzi.

Per ultimo, ma non meno importante, ricordiamo come nel tempo dietro questi baracconi si sono annidati enormi interessi delle più svariate lobby regionali, poteri forti e politica clientelare; la cronaca ci ha insegnato che nel tempo la componente politica é stata facilmente infiltrate da appetiti masso-mafiosi.

LA SOLUZIONE É TORNARE ALLO STATO CENTRALE.
Una riforma urge!

giovedì 23 ottobre 2025

Stato corporativo e organico del lavoro contro la partitocrazia

Viviamo in un tempo in cui la politica sembra essersi trasformata in una macchina distante, autoreferenziale, incapace di parlare davvero alla vita reale delle persone. I partiti si sono fatti apparati di sistema: chiusi, burocratici, separati dal corpo vivo della nazione. È da questa crisi che nasce, quasi spontaneamente, il bisogno di un nuovo modo di pensare la "democrazia", nel senso più autentico e antisistema: non più come un’arena di interessi contrapposti, ma come un organismo vitale, in cui ogni parte della società concorre armonicamente al bene comune.

La "democrazia organica" del lavoro come principio fondativo per abbattere la partitocrazia

L’idea di "democrazia organica" del lavoro parte da un presupposto semplice e insieme rivoluzionario: la vita politica non può essere separata dalla vita produttiva. La vera rappresentanza nasce dal lavoro, dalle comunità, dai corpi intermedi che danno sostanza alla nazione.
Una nazione non è una somma di individui isolati, di tessere di partito e codici fiscali, ma una comunità di destini. In essa, forze rurali, artigiani, imprenditori, professionisti e lavoratori non sono categorie contrapposte, ma membra di un unico corpo, legate da responsabilità reciproca. La politica dovrebbe riflettere questa realtà concreta, non le astratte logiche di partito o le mode ideologiche del momento.

Il valore del corporativismo come strumento di rappresentanza reale

Il corporativismo, inteso nel suo significato originario, rappresenta una risposta possibile al vuoto della partitocrazia. Non è un sistema di controllo, ma un metodo di partecipazione: ogni categoria produttiva, ogni settore vitale della nazione, dovrebbe avere la possibilità di contribuire direttamente alla formazione delle leggi che lo riguardano.
Si immagina qui un Parlamento non più dominato da liste di partito, ma da rappresentanti eletti dai corpi sociali: dai lavoratori, dalle imprese, dalle professioni, dalle arti, dalle comunità locali. Una Camera del Lavoro e delle corporazioni, insomma, che potrebbe dare senso e concretezza al concetto stesso di sovranità popolare.
In una "democrazia organica", la libertà non è caos, ma ordine vitale; non è contrapposizione sterile, ma collaborazione tra funzioni diverse per un fine comune, abbattimento delle logiche classiste: liberali e marxiste, per il raggiungimento della pace sociale e per il bene superiore della nazione e del popolo.

La nazione come comunità di lavoro

La nostra nazione ha bisogno di ritrovare sé stessa, non nei simboli di partito ma nel lavoro quotidiano di chi produce, educa, cura, crea. La vera unità non nasce dalle parole, ma dall’esperienza condivisa del dovere e della cooperazione sociale.
Rimettere al centro il lavoro significa restituire dignità alla politica, perché solo chi partecipa alla costruzione concreta del bene comune può pretendere di rappresentarlo.

Conclusione: oltre la partitocrazia, per la democrazia organica e lo Stato Nuovo

Non si tratta di sognare un ritorno al passato, ma di guardare avanti con uno sguardo più realistico e umano.
 Una "democrazia organica" del lavoro non necessariamente esclude la pluralità delle idee, sicuramente  radica una base più solida: quella della responsabilità sociale.
In un mondo dominato dall’astrazione finanziaria e dalla propaganda, tornare a un modello di rappresentanza organica significa restituire alla politica il suo fondamento naturale: la vita reale della nazione, fatta di lavoro, dovere e solidarietà da fondere in uno Stato nazione, sociale ed organico, organizzato tramite il lavoro ed il corporativismo. 

mercoledì 22 ottobre 2025

L’Italia tradita, la sovranità usurpata e l’inganno dell’€uro

Critica

C’è un tradimento silenzioso che da decenni divora la nostra Sovranità. Non porta divise, non ha carri armati ai confini (ancora per poco), agisce per ora dalle scrivanie di Bruxelles e Francoforte: è il furto della sovranità monetaria. Con la fine della Lira, l’Italia ha ceduto non solo la propria moneta, ma il cuore stesso della sua libertà economica.
Quando la Lira esisteva, lo Stato poteva governare il credito, modulare la spesa pubblica, investire per la crescita e sostenere il lavoro. Oggi, invece, siamo schiavi di un sistema tecnocratico — la BCE — che detta legge a popoli interi in nome di un “mercato” senza volto e senza patria. Gli euroburocrati parlano di “stabilità dei prezzi”, ma ciò che hanno realmente stabilizzato è la sottomissione delle nazioni.

L’Inganno della Burocrazia Europea

L’euro doveva unire i popoli; ha invece diviso le economie. È diventato una camicia di forza, fatta di parametri e vincoli decisi da chi non risponde a nessuno se non ai mercati finanziari. Mentre i popoli del Sud Europa si indebitano per sopravvivere, le grandi banche del Nord si arricchiscono con i tassi e gli interessi di un sistema disegnato per loro.
La BCE “indipendente” non è altro che il simbolo dell’esproprio "democratico". Laddove un tempo la Banca d’Italia poteva creare moneta a sostegno dello sviluppo nazionale, oggi il denaro nasce come debito: prestato agli Stati da una banca che non appartiene più al popolo. È la modernizzazione del concetto di usura, come la chiamava il poeta Ezra Pound:
«Con l’usura nessuno ha una casa di buona pietra,
con solide travi e tetto di tegole;
l’usura corrompe ogni cosa, e spegne il lume dell’anima.»
Quelle parole, scritte nel secolo scorso, oggi risuonano come una profezia. L’usura moderna non è più quella dell’avaro con il registro contabile in mano, ma quella del burocrate monetario che decide chi deve prosperare e chi deve fallire.
L’Euro e la Perdita del Potere d’Acquisto
Chi vive di stipendio o pensione lo sa bene: da quando è arrivato l’euro, il potere d’acquisto si è dimezzato. La promessa di stabilità si è trasformata in una lenta erosione del reddito reale.
L’inflazione odierna non è un imprevisto, ma una conseguenza strutturale di un sistema nato male: una moneta senza Stato, una banca senza popolo, un’economia senza sovranità.
I dati parlano da soli: salari fermi, prezzi in aumento, industria in fuga, giovani costretti a emigrare. L’Italia è passata da motore manifatturiero d’Europa a terreno di conquista per fondi esteri e multinazionali che comprano a saldo ciò che i nostri nonni hanno costruito col sudore.

Riconquistare la Sovranità: Uscire dalla Gabbia dell’Euro

Non c’è libertà economica senza sovranità monetaria. Finché il nostro destino sarà deciso da un consiglio di banchieri non eletti, nessuna riforma potrà davvero cambiare le cose. È tempo di rimettere in discussione l’intero impianto dell’eurozona.
Ritornare a una moneta nazionale non è un salto nel buio: è un atto di autodeterminazione. Nessun popolo può dirsi sovrano se non controlla la propria moneta. L’Italia deve avere il coraggio di liberarsi da questo sistema che la soffoca, di dire “basta” all’illusione tecnocratica e di tornare padrona del proprio destino.

Come ricordava il prof. Giacinto Auriti: «la moneta deve essere di proprietà del popolo nel momento dell’emissione, non della banca che la presta.»
È da lì che si ricomincia: dalla consapevolezza che la sovranità non si delega, si esercita.

FUORI DA EUROZONA SUBITO! 

martedì 21 ottobre 2025

Il ritorno fatale all’ordine: Tra collasso del marxismo e fallimento del Capitalismo


C’è un momento nella storia in cui le ideologie si spengono, una dopo l’altra, come stelle morte nel cielo della modernità. Il marxismo, con la sua promessa di liberazione universale, è crollato sotto il peso della sua stessa negazione dell’uomo; il capitalismo, con la sua fede cieca nel mercato e nell’individuo, sta consumando l’anima collettiva e il pianeta stesso.
Ciò che rimane, dopo le macerie delle due grandi superstizioni del Novecento, è l’attesa di un nuovo ordine: un ritorno fisiologico, inevitabile, al principio organico della comunità.

L’uomo tra due rovine

Il marxismo ha fallito perché ha tentato di sopprimere la trascendenza dell’uomo, riducendo lo spirito alla materia, la libertà alla dialettica economica. Il capitalismo fallisce perché compie il gesto opposto, ma ugualmente disumano: esalta l’individuo fino alla dissoluzione di ogni legame, fino alla mercificazione del vivere stesso.
Entrambi, in fondo, hanno costruito templi sul nulla: uno sull’utopia dell’uguaglianza assoluta, l’altro sulla menzogna della libertà senza radici.
Ora che entrambe le illusioni mostrano le ossa, l’umanità si trova davanti al bivio definitivo. Non potrà tornare indietro, né restare immobile. La storia, come la natura, non tollera il vuoto. E in questo vuoto, cresce un’ombra nuova: la terza posizione.
La fisiologia del ritorno
Non è una scelta ideologica — è una necessità biologica, spirituale, antropologica.
Quando i sistemi si disgregano, l’organismo tende a ricostruirsi secondo le proprie leggi interiori. Così l’umanità, esaurite le follie del collettivismo e dell’individualismo, tornerà a cercare l’armonia tra le parti.
Non la lotta di classe, non il dominio del mercato, ma il giustizialismo: l’idea che il lavoro, il capitale e lo Stato siano membra di un solo corpo, cooperanti, coordinati, legati da un destino comune, una comunità di destino.

Verso lo Stato organico

La società futura non sarà più quella degli atomi isolati né quella delle masse amorfe. Sarà organica: corporativa, comunitaria, solidale. Le corporazioni non come strumenti di potere economico, ma come cellule vitali dell’organismo nazionale. Lo Stato non come macchina amministrativa, ma come sintesi vivente di popolo, cultura e destino.
Il peronismo, nella sua intuizione primordiale, fu la prima eco di questa nuova fisiologia storica — l’annuncio di un tempo in cui la giustizia sociale e la grandezza nazionale si fondono nella stessa parola: ordine; il mondo non potrà che andare verso questa direzione, un futuro annunciato.

Il ritorno fatale all'ordine  

L’epoca che verrà non sarà dolce. Sarà il tempo dei giganti, in cui i popoli dovranno scegliere se rinascere o dissolversi. Il capitalismo implode nel caos, il marxismo nel dogma morto.
Ma da quelle rovine, come da un terreno bruciato, germoglierà l’idea eterna: che la comunità vale più dell’individuo e la dignità più del profitto.
Non sarà un ritorno al passato, ma il compimento di una legge naturale: ogni civiltà, per sopravvivere, deve ritrovare la propria forma organica.
E quando il mondo moderno avrà finito di autodistruggersi, ciò che sorgerà dalle sue ceneri non sarà un’utopia, ma un ordine inevitabile.
L’ordine del Giustizialismo eterno.

lunedì 20 ottobre 2025

UNA TERZA POSIZIONE E L'EVENTUALE RUOLO DELLO STATO NUOVO

Nel modello della Terza Posizione o Terza Via, lo Stato non è né mero arbitro neutrale dell’economia (come nel liberalismo), né unico proprietario dei mezzi di produzione (come nel socialismo classico), ma organo di indirizzo e coordinamento dell’interesse nazionale.
La sovranità economica diventa un’estensione della sovranità politica: le risorse strategiche  per la nazione — energia, trasporti, infrastrutture, finanza, sanità, sicurezza, comunicazioni — devono essere poste sotto controllo pubblico, perché costituiscono i fondamenti della vita collettiva e della sicurezza della nazione.
In questo quadro, lo Stato esercita una funzione organica: non reprime l’iniziativa privata, ma la orienta verso fini sociali, garantendo che il profitto individuale non contraddica il bene comune e la giustizia sociale. L’economia viene così concepita come una struttura corporativa, dove categorie produttive — lavoratori, imprenditori, professionisti — collaborano all’interno di corpi intermedi riconosciuti e regolati dallo Stato.
Questi organismi corporativi, rappresentativi dei diversi settori economici, partecipano all’elaborazione delle politiche nazionali, sostituendo la contrapposizione di classe con un principio di collaborazione funzionale.
Lo Stato, dunque, non è un semplice regolatore, ma il motore etico e organizzativo della comunità nazionale: garantisce la giustizia sociale, promuove la coesione e mantiene il controllo delle leve economiche essenziali, senza annullare la libertà d’iniziativa, ma subordinandola a una visione comune di sviluppo e solidarietà.


IRI: il cuore industriale dell’Italia che abbiamo smantellato


Per quasi settant’anni l’IRI — Istituto per la Ricostruzione Industriale — ha rappresentato la spina dorsale dell’economia italiana. Nato nel 1933 e voluto dal fascismo  in piena crisi economica globale, fu la risposta dello Stato alla bancarotta del sistema finanziario privato e al collasso industriale.
L’IRI non fu solo un ente pubblico: fu la mano concreta con cui l’Italia costruì la sua modernità, un modello di capitalismo nazionale capace di coniugare sviluppo, lavoro e sovranità economica.

Il miracolo industriale italiano

Dalla siderurgia alle telecomunicazioni, dai trasporti all’energia, l’IRI fu protagonista di una stagione di crescita senza precedenti.
Negli anni ’50 e ’60 le sue partecipazioni industriali — Italsider, Alfa Romeo, Finmeccanica, SIP, Alitalia — trasformarono l’Italia da paese agricolo a potenza industriale.
Sotto la sua ala nacquero eccellenze tecnologiche, infrastrutture strategiche e milioni di posti di lavoro stabili.
Era l’epoca in cui lo Stato non si vergognava di fare impresa, ma anzi guidava lo sviluppo nazionale con visione e responsabilità.

Il progressivo smantellamento

Dagli anni ’90, però, iniziò la demolizione sistematica di quell’apparato.
Con la retorica del “libero mercato” e della “modernizzazione”, l’Italia aderì alle politiche di privatizzazione spinte da Bruxelles e Washington.
Il governo Prodi e quelli successivi svendettero pezzo dopo pezzo il patrimonio pubblico accumulato in decenni.
Telecom Italia, Autostrade, Alitalia, Italsider — simboli dell’ingegno e della forza produttiva del Paese — furono ceduti a capitali privati, spesso stranieri, in nome dell’efficienza e della concorrenza.
Il risultato? Un Paese deindustrializzato, privo di poli strategici, dipendente da capitali esteri e incapace di pianificare il proprio futuro economico.

Dallo Stato imprenditore allo Stato spettatore

La scomparsa dell’IRI ha significato la fine di un modello di Stato che difendeva l’interesse nazionale.
Oggi l’Italia non controlla più i suoi asset fondamentali: energia, telecomunicazioni, trasporti, difesa.
Le decisioni che contano non si prendono più a Roma, ma nei consigli di amministrazione di fondi internazionali o nelle sedi di Bruxelles.
Abbiamo confuso l’apertura dei mercati con la resa della sovranità economica.
E il conto, salatissimo, lo pagano i lavoratori, le imprese e i territori dimenticati dal nuovo capitalismo globale.

Una nazione da ricostruire

Il dibattito sul ritorno di una regia pubblica nell’economia non è nostalgia: è realismo.
Senza una strategia nazionale per l’industria, l’Italia rischia di restare una piattaforma turistica e di servizi, priva di peso produttivo.
L’IRI, dimostrò che lo Stato può essere un attore efficiente, innovativo e patriottico.
Rimettere in moto un meccanismo simile oggi non significherebbe tornare al passato, ma recuperare l’idea che l’economia deve servire la Nazione, non il contrario.

Conclusione

L’IRI non era solo una struttura amministrativa: era un simbolo di sovranità economica.
Smantellarlo ha significato rinunciare alla capacità di decidere del nostro destino industriale.
Oggi, nel pieno delle crisi globali, l’Italia scopre di non possedere più le leve per difendere se stessa.
Forse è giunto il momento di riscoprire quella lezione dimenticata: senza industria nazionale non c’è indipendenza, e senza indipendenza non c’è futuro.