domenica 2 novembre 2025

Harukichi Shimoi, il "camerata samurai" di D’Annunzio e Mussolini

Rubrica storica 

Nel turbolento panorama dell’Italia del primo dopoguerra, fra idealismi e rivoluzioni, comparve una figura singolare e affascinante: quella di Harukichi Shimoi, poeta, intellettuale e guerriero giapponese che si fece conoscere come “il samurai di Fiume”. 

Uomo di lettere e d’azione, Shimoi incarna in modo
emblematico l’incontro tra l’Oriente e l’Italia d’inizio Novecento.

Dalle rive di Fukuoka a Napoli

Nato nel 1883 a Fukuoka, nel sud del Giappone, Shimoi si formò in un ambiente permeato dal rinnovamento culturale dell’era Meiji. Fin da giovane fu attratto dalla letteratura occidentale e in particolare da quella italiana: lesse Dante, studiò la metrica italiana e ne tradusse i versi nella lingua giapponese. Questo amore lo portò, nel 1915, a trasferirsi in Italia, dove ottenne un incarico come docente di lingua giapponese presso l’Istituto Orientale di Napoli.
L’Italia lo affascinò profondamente. Vi trovava una passione civile e un’energia artistica che, ai suoi occhi, ricordavano lo spirito guerriero e poetico dei samurai. In breve tempo si integrò negli ambienti culturali napoletani e cominciò a scrivere articoli e poesie in italiano, divenendo una curiosa figura di ponte tra due mondi lontani.

Un samurai al fronte per l'onore d'Italia 

Quando l’Italia entrò nella Prima guerra mondiale, Shimoi non rimase a guardare. Si offrì volontario per combattere al fianco dei soldati italiani, diventando un ardito, uno di quegli uomini scelti per le missioni più rischiose. Sul fronte del Piave, raccontano le cronache, insegnò ai commilitoni alcune tecniche di combattimento giapponesi e partecipò alle ultime offensive decisive del conflitto.
Per Shimoi la guerra non era solo un fatto militare, ma un’esperienza etica: una prova dello spirito e d'onore in cui disciplina e bellezza potevano fondersi in un ideale di sacrificio. È in questa visione romantica e cavalleresca che maturò il suo incontro con un’altra figura fuori dal comune: Gabriele D’Annunzio.


L’incontro con D’Annunzio e l’impresa di Fiume

Nel 1919, quando D’Annunzio guidò la leggendaria occupazione di Fiume, Shimoi fu tra i primi a offrirgli il proprio sostegno. Lo seguì in quell’avventura politica e poetica, affascinato dall’energia rivoluzionaria del Vate e dalla sua idea di un’azione eroica al di là delle regole diplomatiche.
Fu proprio a Fiume che nacque il soprannome che lo rese celebre: “il samurai di Fiume”. D’Annunzio lo stimava per la sua lealtà e per il suo spirito guerriero, lo chiamava “camerata Samurai” e gli affidava spesso missioni delicate. Shimoi, grazie al suo passaporto giapponese, faceva da intermediario tra Fiume e l’esterno, portando messaggi, lettere e contatti anche a Benito Mussolini, allora ancora ai margini del potere.

Un ponte fra Oriente e Occidente

Al di là dell’esperienza militare, Shimoi fu un instancabile promotore di scambi culturali. Tradusse in italiano i versi di poeti giapponesi come Akiko Yosano e Matsuo Bashō, contribuendo a far conoscere in Europa la forma poetica dell’haiku. Allo stesso tempo tradusse Dante in giapponese e si fece interprete della cultura italiana nel suo paese.
Fu anche tra gli ideatori del raid aereo Roma–Tokyo del 1920, un’impresa che doveva simboleggiare l’unione spirituale e tecnica tra l’Italia e il Giappone. In quegli anni, il suo impegno si spostò progressivamente dalla poesia alla diplomazia culturale: organizzò incontri, scrisse articoli e si fece interprete di un ideale comune di eroismo e modernità.


L'adesiomi ai valori del fascismo

L’Italia del dopoguerra, stava cambiando. Le tensioni sociali e il mito dell’arditismo si traducevano in movimenti politici radicali. Shimoi vide nel fascismo nascente alcuni tratti affini alla disciplina del bushidō, il codice d’onore dei samurai: lealtà, spirito di sacrificio, culto della patria. Partecipò alla marcia su Roma e sostenne la causa fascista, nella convinzione che Italia e Giappone condividessero un destino di rinascita nazionale.
Negli anni Trenta tornò in patria, dove continuò a scrivere e a insegnare. Anche in Giappone mantenne viva l’idea di un ponte culturale con l’Italia, promuovendo studi su Dante e sulle arti occidentali. Dopo la Seconda guerra mondiale, deluso dagli esiti della politica e dal crollo degli ideali che aveva inseguito, si ritirò progressivamente dalla vita pubblica. Morì nel 1954, lasciando dietro di sé una figura complessa che mantiene il suo fascino leggendario.


Un’eredità fra poesia e mito

Oggi, la figura di Harukichi Shimoi affascina per la sua singolarità. Fu al tempo stesso poeta, guerriero, traduttore, ideologo e sognatore. In lui convivevano l’Oriente del bushidō e l’Occidente del decadentismo dannunziano, la ricerca estetica e la tensione politica, l’arte e la guerra.
Il suo nome resta legato all’immagine romantica del “samurai di Fiume”, simbolo di un’epoca in cui la poesia pretendeva di farsi azione e l’eroismo si mescolava all’utopia. Shimoi resta, in fondo, una delle figure più enigmatiche e affascinanti del dialogo culturale tra Italia e Giappone nel Novecento: un uomo che cercò, con la spada e con la penna, di unire due mondi lontani sotto l’ideale comune della bellezza e del coraggio, passando per D'Annunzio prima e per il fascismo dopo.

Conclusioni 

Il suo contributo culturale é stato profondo, ha permesso la diffusione degli ideali fascisti in Giappone, con la sua imponente opera letteraria ed il suo esempio pratico di adesione integrale.