L’Italia di oggi è una nazione ferita.
Ferita da decenni di politiche liberiste, da tagli ciechi allo Stato Sociale, da una economia sempre più piegata ai voleri dei mercati e sempre meno capace di difendere chi lavora, cresce figli o semplicemente chiede di vivere con dignità.
Lo Stato Sociale, una delle conquiste più alte, che ebbe principio nel 1922 per poi essere progressivamente svuotato dall’interno dai primi anni '90.
Ciò che doveva essere strumento di coesione nazionale è diventato un sistema burocratico, diseguale, incapace di proteggere davvero gli italiani più fragili.
Un popolo impoverito e disilluso
I numeri non lasciano spazio a interpretazioni.
Oltre il 23% degli italiani è oggi a rischio di povertà o esclusione sociale, e più di 2,2 milioni di famiglie vivono in povertà assoluta. Si tratta di quasi 6 milioni di persone.
E non parliamo più soltanto dei “senza lavoro”: sempre più spesso la povertà colpisce chi un lavoro ce l’ha, ma è precario, sottopagato, senza tutele. È la fotografia di una nazione dove il lavoro non basta più a vivere, dove le famiglie con figli sono penalizzate, dove i giovani rinunciano a mettere radici perché non intravedono futuro.
È una crisi non solo economica, ma morale e identitaria.
Una Italia che smette di proteggere i suoi cittadini perde se stesso, perde il senso di comunità, di appartenenza, di destino condiviso.
Il Mezzogiorno dimenticato, le periferie abbandonate
La frattura territoriale è diventata una ferita aperta.
Il Mezzogiorno continua a pagare un prezzo altissimo, con servizi pubblici carenti, sanità in difficoltà e disoccupazione giovanile record.
Ma la marginalità non è più solo geografica: anche le periferie del Nord e delle grandi città si stanno trasformando in deserti sociali, dove lo Stato è assente e il disagio cresce.
L’autonomia differenziata e il decentramento finiranno per amplificare queste disuguaglianze.
Un’Italia a due velocità non è una nazione: è una somma di solitudini.
Ritrovare l’unità sociale della nazione significa tornare a un welfare nazionale, uguale per tutti, capace di garantire gli stessi diritti da Bolzano a Palermo.
Il sistema sanitario: un bene comune da difendere
Il Servizio Sanitario Nazionale è stato per decenni uno dei simboli della nostra civiltà.
Oggi, invece, è in ginocchio: carenza di medici, liste d’attesa infinite, ospedali al collasso.
Troppi giovani sanitari formati in Italia emigrano all’estero perché trovano salari più alti e condizioni migliori. Lo Stato investe per formarli, ma poi li perde.
Questo è il frutto di una logica miope che ha trattato la sanità come un costo da ridurre, non come una ricchezza da difendere.
Difendere la sanità pubblica non significa tornare all’assistenzialismo, ma rimettere la persona al centro.
La salute non è un privilegio, è un diritto, e deve essere garantito da una rete nazionale efficiente, moderna e giusta.
Contro l’assistenzialismo sterile, per un welfare del lavoro e della famiglia.
Lo stato sociale non deve trasformarsi in una macchina di sussidi che disincentiva l’impegno e produce dipendenza.
Ma nemmeno può ridursi a un sistema minimale di carità pubblica.
Serve un welfare produttivo, che premi chi lavora, chi studia, chi costruisce una famiglia.
Un welfare che sostenga la natalità, l’infanzia, la maternità, che consenta alle donne di lavorare senza dover scegliere tra carriera e figli.
Un welfare che protegga gli anziani, ma senza dimenticare i giovani.
E soprattutto un welfare che metta gli italiani al centro, senza distinzione, ma anche senza confusione: chi ha contribuito di più, chi ha costruito questa nazione, deve sentirsi tutelato per primo.
Sovranità sociale: rimettere lo Stato al servizio del popolo
La vera riforma non è tecnica, è culturale.
Occorre rifiutare l’idea che il welfare debba piegarsi ai vincoli di bilancio europei o ai parametri imposti da Bruxelles.
La sovranità sociale è parte della sovranità nazionale: uno Stato libero decide da sé come proteggere i propri cittadini, senza delegare a poteri esterni il destino del proprio popolo.
La spesa sociale non è un costo, è un investimento.
Ogni euro destinato a un asilo nido, a un ospedale, a un programma per la natalità è un euro speso per la sopravvivenza della comunità.
Il mercato da solo non salva nessuno: a tenere insieme un popolo è la solidarietà, non la concorrenza.
Un nuovo patto sociale italiano
Riformare lo stato sociale significa restaurare un’idea di giustizia nazionale.
Un patto tra cittadini e Stato fondato su tre principi:
Lavoro come diritto e dovere, non come privilegio.
Famiglia come pilastro della comunità, da sostenere
concretamente, non solo a parole.
Stato come garante della dignità, non come burocrate o contabile.
L’Italia deve tornare a essere una comunità solidale e sovrana, non una periferia di un’economia globale senza volto.
Serve una rivoluzione morale, prima ancora che economica: ricostruire il senso di appartenenza, di reciprocità, di responsabilità collettiva.
Conclusione: il tempo della ricostruzione
Non si tratta di nostalgia del passato, ma di giustizia nel presente.
Lo Stato sociale è nato per proteggere il popolo; oggi deve rinascere per restituirgli dignità.
Finché milioni di italiani vivranno di lavori precari, pensioni minime e sanità negata, non potremo dirci una nazione compiuta.
Difendere il welfare non è una battaglia di parte, è una battaglia di civiltà.
E chi crede nella sovranità, nel lavoro e nella famiglia non può restare spettatore.
È tempo di ricostruire uno Stato che torni a essere davvero dalla parte del suo popolo.